Contemporary Indian fashion, il nuovo lavoro di Federico Rocca per Damiani editore, casa editrice sempre molto attenta al nuovo e alla ricerca nell’ambito dello stile, della fotografia e del costume, è un percorso nella nouvelle vague della moda indiana, fra quei nomi che, forse sconosciuti ai più, rappresentano la nuova creatività di una nazione che suscita curiosità ed interesse da sempre in noi occidentali.

La pubblicazione presenta una vasta collezione di capi d’abbigliamento, lavorazioni, ricami, contaminazioni e mix di stili, racconta una moda sperimentale che è piacevolmente libera da pregiudizi estetici e audace nelle invenzioni. Sicuramente grazie a questa pubblicazione firme come Ashish N Soni, Manish Arora e Rajesh Pratap Singh inizieranno ad essere familiari anche in Occidente. Abbiamo incontrato Federico Rocca, una laurea al Dams alle spalle, il giornalismo di moda come passione e occupazione, attualmente fashion editor di style.it.

Non è il suo primo impegno con la casa editrice Damiani. Come è arrivato ad una esperienza come questa, ci racconta un po’ cosa ha preceduto quest’ultima pubblicazione?

Il diretto antecedente rispetto a “Contemporary Indian Fashion” è stato “Embroidery Italian Fashion”, un libro che ho curato nel 2006 sempre per Damiani. Lì davo una panoramica del gusto per il ricamo e per l’embellishment in genere nella moda italiana post minimalista. Ho scoperto un mondo di artigianalità straordinaria che in India ha un suo punto focale storico, ma anche naturale. Ci è sembrato quasi obbligatorio provare a conoscere meglio questa sorta di continente di cui tanto si parla, che spesso oggi ci spaventa, da un punto di vista della competitività, e che sicuramente da decenni ci affascina. La moda come chiave per tentare di intuire l’evoluzione di una società in fermento come quella indiana. Tra una pubblicazione e l’altra abbiamo proposto uno studio biografico su Silvana Mangano, interessante perché mi ha dato modo di sconfinare dal territorio fashion di cui solitamente mi occupo.

Mi racconta questa nuova avventura editoriale?
Lunga e meno facile di quanto si possa immaginare. L’idea di base era: cosa della moda indiana di oggi, multiforme e composita come poche altre, potrebbe piacere ai buyer, alle donne e alla stampa italiana e occidentale in genere? Ho voluto mantenere uno sguardo il più possibile vergine. Senza farmi influenzare dal maggiore o minore successo che in India questi stilisti stanno ottenendo. Ho selezionato quello che dal mio punto di vista, quello di un giornalista di moda italiano, potesse avere un senso, una possibilità, un appeal nel fashion business occidentale. E qualcosa c’è.

Che cosa l’ha colpita di più della nuova creatività indiana?
L’entusiasmo. La voglia di provare. La sperimentazione. Il rispetto per la tradizione e l’intelligenza, di alcuni, nel reinterpretarla. La capacità di fare dei tentativi, anche sbagliando. In ogni vestito, in ogni capo del libro, anche in quelli meno belli, c’è un’idea, un particolare, un “qualcosa” che ti fa pensare.

Secondo lei, cosa dovremmo imparare, in termini di creatività, dai designer indiani e viceversa?
Oggi mi pare che la nostra moda abbia perso un po’ di entusiasmo, in genere. Non che sia un male, in sé. Anche perché è un fenomeno piuttosto inevitabile. Gli indiani possono contare su uno zoccolo duro di compratori indiani che acquistano le loro proposte più classiche, quasi tutti hanno infatti una doppia linea, permettendo ai marchi di sopravvivere e di sperimentare per l’Occidente, senza pensare davvero così tanto a trend, vendibilità, mercato. Quello che devono imparare loro? Fondamentalmente a ingabbiare la loro fantasia in linee e volumi che siano giusti per donne e uomini non orientali.

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