Da una parte una donna con gli strumenti del suo lavoro: le parole. Dall’altra un uomo, con gli strumenti del suo lavoro: la performance, un obiettivo comune combattere il maschilismo tossico

Questo festival nato un passo indietro rispetto al suo conduttore ieri ci ha regalato due grandi momenti di riflessione. Da una parte una donna con gli strumenti del suo lavoro: le parole. Dall’altra un uomo, con gli strumenti del suo lavoro: la performance.

Questo due momenti di spettacolo hanno dato una vera e propria batosta al maschilismo tossico infestante che i nostri valori, i valori del Pride, mettono in discussione ogni singolo giorno.

Rula Jebreal ha saputo mettere in ordine le parole, è il suo mestiere. Ha unito personale e pubblico in una narrazione piena di sensibilità umana rendendola vera e inoppugnabile. “Perché mia madre Nadia fu stuprata e brutalizzata due volte: a 13 anni da un uomo e poi dal sistema che l’ha costretta al silenzio, che non le ha consentito di denunciare. Le ferite sanguinano di più quando non si è creduti.”

Sapevamo che avrebbe parlato di violenza contro le donne e qualcuno le ha anche chiesto il contraddittorio. Bene, il contraddittorio c’era ed era l’unico ammissibile, quello dei versi di Vasco, di Battiato, di De Gregori e di Fossati. Essere maschi non vuol dir per forza essere i cattivi, come certe pseudo femministe vogliono farci credere. I maschi sanno anche trovare le parole giuste, che non raccontano di prevaricazione e sudditanza ma di amore, di rispetto, di cura.

Achille Lauro non ha solo scelto un look. Lui ha studiato una performance prendendo ispirazione dall’iconografia giottesca di San Francesco che si spoglia delle vesti. Non serve fare paragoni tra gli eventi. Quello che conta è il gesto. Lauro è un cantante rapper, una scena musicale che ha codici e linguaggi spesso impregnati di episodi di sessismo e machismo. E lui rovescia il linguaggio, lo critica. E non serve sapere se l’avevano già fatto Zero, Bowie o Loredana Bertè.

L’ha fatto lui, ora, perché ne abbiamo ancora bisogno, e su questo dobbiamo ragionare. Perché se da una parte c’è chi pensa che possa essere un valore quando una donna sta un passo indietro al suo uomo, dall’altra c’è lui, che se ne frega: “Sono allergico ai modi maschili ignoranti con cui sono cresciuto. Allora indossare capi di abbigliamento femminili, oltre che il trucco, la confusione di generi è il mio modo di dissentire e ribadire il mio anarchismo, di rifiutare le convenzioni da cui poi si genera discriminazione e violenza.”

Il monologo di Rula e l’esibizione di Lauro non volevano essere rassicuranti. Al contrario, ci hanno messi a nudo. Davanti a una situazione deragliante abbiamo preferito reagire col senso comune, così pieno zeppo di cliché. E se Rula la si applaude, perché dice di pancia quello che le donne non dicono – ma poi non ho visto nessuno fare autoanalisi sulle proprie narrazioni -, la tutina di Lauro ha aperto la strada ai commenti sui fianchi, sulle maniglie dell’amore e sul culo.

Ed eccoci di nuovo nello stereotipo sessista di genere. Vai bene o non vai bene. Ci stai dentro o non ci stai dentro. Ma quanta fatica ci costa provare a ragionare con strutture mentali nuove e diverse, metterci all’ascolto invece che al giudizio? Dovrebbe essere questa la rivoluzione di cui ci tanto ammantiamo.

Essere maschi richiede uno sforzo di comprensione, di spogliarci del privilegio del patriarcato e provare a ragionare oltre i ruoli. Ci richiede di ragionare sulle parole e sui fatti, ci richiede di metterci in discussione, di cambiare, di accogliere e di conoscere. A cominciare dalle parole.