Moschino (Franco) raccontato da chi lo conosceva bene. Emozionante incontro con Rossella Jardini collaboratrice, amica, complice, musa dello stilista di Abbiategrasso.

Da poco ho fatto vedere “Sotto il vestito niente” ad un amico che non lo conosceva. Ogni volta che io lo riguardo provo sempre la stessa “emozione” per la scena della sfilata di Moschino fuori della Stazione Centrale di Milano.

Di quella scena amo tutto. Amo che Moschino (Franco) ha portato nel film la sua vera collezione, le sue modelle, una su tutte Pat Cleveland che sfila quasi ballando con la gonna/cappa con una mucca stampata – uno dei pezzi iconici del brand -.

Di getto ho scritto una nota su instagram in cui dicevo di essermi innamorato di Moschino proprio vedendo quella scena e che all’inizio – nel 1985 avevo 10 anni – credevo che il nome fosse di fantasia e solo dopo ho “scoperto” che invece era il cognome di Franco.

Il cognome di un artista geniale. Quando si parla di Moschino  si usano sempre aggettivi come trasgressivo, anticonformista, tutte definizioni che non gli sono mai piaciute e che secondo me non lo rappresentano affatto.

Se dovessi dargli io una definizione direi che Franco Moschino è stato sovversivo. Sovversivo nell’accezione di colui che stravolge la tradizione.

Penso alle sue creazioni come sovversive perché con esse lui ha stravolto la tradizione e le regole del “bel vestire all’italiana”, riuscendoci proprio perché le conosceva.

Moschino era innanzitutto un sarto, un artista, un creativo e conosceva benissimo le regole per confezionare abiti che, non solo potevano, ma dovevano essere indossati da donne, e anche uomini, in modo impeccabile, ma che amava rendere unici giocando e ironizzando molto.

Come scrive lui nel catalogo della mostra “X 1983/1993 X anni di Kaos!”: “il concetto Moschino consiste nel lasciare la più totale libertà di scelta a coloro che desiderano vestirsi. Le imposizioni sono bandite, quello che usavi l’anno scorso, se ti piace, si userà anche quest’anno e l’anno prossimo (…) Moschino vuol dire scegliere con la stessa sicurezza e tranquillità con la quale si sceglie qualcosa da mangiare … Sono come un ristorante che cerca di fare bene dei piatti classici già inventati da chissà quale cuoco”.

Entrando nell’ottica che questo era il mood con cui pensava alle collezioni non fa strano pensare che la sua musa fosse Olivia Oyl, un fumetto e la più sgraziata e goffa delle donne che, nonostante non fosse una bellezza alla Betty Boop, aveva conquistato il cuore di Popeye, ma anche del suo eterno rivale Bluto.

Ma la sua musa vera, quella in carne e ossa era Rossella Jardini, sua “complice”, amica e stretta collaboratrice. Bergamasca, capricorno ascendente Hermès – come amava dire di lei  -, per la sua passione smodata per le borse di quel marchio, nonostante i suoi abiti di Yves Saint Laurent e la passione per i rigorosissimi stilisti giapponesi.

La donna Moschino era sì figlia degli anni ‘80, edonista, esteta, modaiola, ma non una vittima della moda, era una donna che amava soprattutto divertirsi con le proposte del maestro Franco.

Era una donna libera di mostrare il lato più leggero del suo carattere, a differenza delle altre signore che avevano deciso di indossare divise rigorose, per affermare il proprio valore, ma anche di quelle che sposavano i diktat della moda perché fashion victim.

Il messaggio che voleva mandare attraverso il proprio look era molto chiaro: “Non pensare che se indosso le posate sulla giacca sono una da sottovalutare”.

Non è un caso che negli anni ’90 la più assurda delle eroine tv “La Tata” Francesca Cacace, nell’adattamento italiano spacciata per originaria di Frosinone, indossasse spesso abiti o accessori Moschino, perché le davano quel carattere leggero, surreale, superpop che le permetteva di portare tanto colore a casa del ricco, vedovo inglese Maxwel, grigio e intristito prima del suo arrivo.

Nelle interviste spesso la Jardini ha ricordato che era il Kaos il motore che permetteva alla macchina creativa Moschino di viaggiare.

Capovolgere, ribaltare il senso, fondere insieme precisione e ironia, far coesistere gli opposti.

Kaos era anche il nome della prima fragranza maschile e il packaging era tutto giocato sugli opposti, come il cuore e il picche delle carte da gioco, l’Ok e il Ko, lo Ying e lo Yang, l’arcangelo e il diavolo e una bottiglia che aveva una doppia apertura concepita per stare in orizzontale e quindi creare confusione nello spazio che occupava. Anche la prima fragranza femminile non era da meno.

L’immagine della campagna pubblicitaria aveva una modella intenta a bere con la cannuccia nella bottiglietta del profumo e lo slogan diceva “Solo per uso esterno”, già cosi era una situazione divertente e insolita per vendere un profumo ma il vero gioco dei codici si svelava tutto osservando bene il contenitore che, ad occhi attenti, rivelava essere in realtà una bottiglia di vino in miniatura!

La coccarda tricolore, a decorare il profumo, richiamava il made in italy, mentre la perla-bottone sul tappo rimandava al concetto di sartorialità.

Quando Moschino poi lancia la seconda linea, quella più ”economica”, la chiama semplicemente Cheap and Chic by Moschino.

Prezzi più bassi rispetto alla prima linea, ma qualità al top, oltre ancora una volta un chiaro gioco di parole, mai cheap e chic erano stati associati prima di allora!

In una calda giornata milanese di luglio Rossella Jardini ci ha raccontato il suo Franco.

Sig.ra Jardini, quando ha conosciuto Franco Moschino?

Franco lavorava da Cadette, per loro ha disegnato delle collezioni meravigliose. Ci siamo conosciuti li, poi io sono andata da Bottega Veneta e per un po’ non abbiamo lavorato insieme, ma quando Franco mi ha proposto di seguirlo nel suo brand, nonostante sapessi che avrei guadagnato molto meno di quello che mi offriva Bottega Veneta non ho avuto un attimo di esitazione.

Molti pensando alle creazioni di Moschino parlano di un trasgressivo, ma lei questo aggettivo lo ha sempre rifiutato. Come mai?

Perché Franco non era trasgressivo, perché era un creativo, un sarto. Le collezioni che aveva fatto per Cadette erano di pura sartoria ma per la sua moda aveva deciso di essere allegro, un comunicatore quando la comunicazione era allo stato primordiale. Ma la trasgressione assolutamente non lo interessava. Non amava la banalità, questo sì. A volte quando gli chiedevo di creare per me delle cose “classiche” mi sfotteva, mi diceva: “Rossella, che noia!”. Poi mi accontentava sempre.

Com’è nata la definizione “capricorno ascendente Hermès”?

Noi eravamo due grandi amici e quando andavamo a Parigi una tappa fissa per me era la boutique di quel marchio e mi regalava sempre qualcosa perché sapeva che amavo quello stile. Ricordo che una volta vidi una borsa molto bella ma rinunciai a comprarla per il prezzo davvero troppo alto, beh lui me la fece trovare già impacchettata all’uscita del negozio! Era una persona molto generosa!

A proposito di generosità. In anni in cui parlare di Aids era estremante complesso – la disinformazione purtroppo è una costante ancora oggi – nacque il progetto Smile rivolto ai bambini sieropositivi. Ci volle molto coraggio a essere pionieri anche in quello, non trova?

Certamente. In quel momento si viveva una forte emergenza e Franco voleva creare per quei bambini dei luoghi dove poter essere ancora bambini e non solo malati.

Essere seguiti, assistiti ma in un ambiente che non fosse ospedaliero, per quello decise di creare il progetto Smile.

Voleva per quei bambini, che vivevano oltre la malattia anche la paura di chi gli stava attorno, un sorriso e un luogo sereno. Abbiamo dovuto vincere davvero mille ostacoli.

In anticipo con i tempi Moschino credeva nella moda ecologica.

Si lui, pioniere anche in questo, credeva che fosse necessario innanzitutto non produrre in eccesso e poi che i materiali, le colorazioni non fossero nocive per l’ambiente. Ma ai tempi trovare cotone organico o materiali certificati biologici era una vera impresa, come del resto tutto quello che abbiamo fatto assieme.

Oltre all’ambiente Moschino di preoccupava del sociale, dai bambini agli anziani e alla droga. Come vennero accolte davvero le campagne pubblictarie a tema sociale?

Quella alla droga era una delle battaglie che decise di portare avanti. Una volta organizzammo una sfilata e come cadeaux gli ospiti trovarono una maglia con scritto “Sex Drug and Rock Roll” dove drug però era sbarrato e insieme una busta per una raccolta fondi per non ricordo quelle associazioni che si occupava di tossicodipendenze. Se arrivammo a 5000 lire fu tanto! Questo spiega bene quanto Franco fosse più avanti di una opinione pubblica che a volte stentava a recepire certi messaggi. Sempre sul pezzo a modo nostro quando iniziò l’era Clinton (Bill naturalmente) realizzammo una sciarpa con scritto “Hillary Clinton For President”.

Un giorno, dopo la vittoria di Bill Clinton, in ufficio arrivò un fax della Casa Bianca, ancora prima di leggerlo si scatenò il panico in ufficio. Ma in realtà, molto spiritosamente, nel fax, la Signora Clinton ringraziava divertita per quel capo.

E oggi? Franco Moschino come avrebbe vissuto la velocità e l’immediatezza che la rete ha permesso?

Non sarebbe di certo uno stilista. Lui già due anni prima di lasciarci, aveva perso interesse per quel ruolo. A lui interessava la comunicazione ed era un comunicatore, le collezioni le seguivo già io con le indicazioni che mi dava. Solitamente degli schizzi su un foglio per altrettanti abiti e da li dovevamo pensare l’intera collezione. I ritmi di oggi non gli apparterrebbero assolutamente.

Potremmo restare a parlare con lei giorni interi, per la sua incredibile disponibilità e perché i suoi non sono racconti di “moda”, ma quelli di di un’amicizia reale a tratti anche molto commoventi.  Quindi nel ringraziarla le chiedo solo un’ultima “Moschinata”.

Quando realizzammo la sfilata per i dieci anni tutto era pronto, inviti spediti, modelle, modelli ecc. e dovevamo farla al Teatro Nazionale. Franco un giorno arriva e mi dice che non voleva più. Io disperata, perché ripeto tutto era già pronto, cerco di convincerlo insistendo che sarebbe stato impossibile annullare. Lui serio mi guarda e mi dice:” Ok, non annulliamo, ma teniamo la porta del Nazionale chiusa e mettiamo un cartello con scritto SCIOPERO! così la gente quando arriva va via”. Alla fine cambiò idea e mi chiese di legare le sedie del teatro con catene per impedire agli ospiti di sedersi. Fortunatamente, non senza un po’ di fatica, la sfilata come saprà si è tenuta e lui alla fine ha preferito non indire quello sciopero.  Anche perché sul palco sfilarono 30 bambini che indossavano il fiocco rosso a sostegno della ricerca sull’Aids. Ricordo ancora il nostro abbraccio dopo l’evento, la sua contentezza per avermi dato retta!

A proposito dell'autore

Secondogenito e gemelli: questo la dice lunga sul mio carattere. “Ottantologo”, Pop addicted, nel corso degli anni ho collaborato con diverse testate, tra cui L@bel, Progress e Aut. La moda è la mia passione più grande perché è cultura, è visione sociologica della vita e del mondo. Freitag addicted le vorrei avere tutte. La Rete è la mia seconda casa. Sono dieci anni che il mio avatar è Psikiatria80, nome del mio primo blog, ma anche di tutti i miei profili sui tanti social network.

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